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Donne che ripartono: Barbara e il dono più grande.

30/6/2017

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​Ho cambiato rotta tante volte, per tanti motivi diversi, ho provato strade più o meno facili e spesso non mi sono trovata davanti a un bivio, ma davanti a un burrone profondo che mi ha costretto a seguire una strada che non avrei mai voluto percorrere.

Scegliere la deviazione più dolorosa è semplice, solo una ha lasciato in me una profonda ferita, quella a cui ripenso ogni singolo giorno, quella che ha segnato e segna ogni scelta della mia vita.

Avevo 20 anni, una ragazzina come tante, con tanti sogni, un percorso parauniversitario che mi avrebbe permesso di fare il lavoro che volevo, un fidanzato che sognavo di sposare dopo qualche anno.

Una famiglia normale, una mamma che amavo, che amo, una quasi sorella che improvvisamente, un mattino d’autunno è volata via lasciandomi sola, completamente sola.

Papà non era in grado, e non lo è tuttora, di sostituire la sua figura nemmeno minimamente tanto è soffocato dal suo dolore. Sono figlia unica, non avevo fratelli e sorelle a cui appoggiarmi e i grandi di famiglia erano troppo occupati a consolare papà per occuparsi davvero di me.

Era il 13 ottobre del 1987, un mattino di un autunno particolarmente caldo, la mamma era in un centro di riabilitazione dopo aver subito un’operazione complessa al cuore. 
Sarebbe tornata a casa da lì a due giorni, invece quel mattino, mentre io lavoravo ai ferri guardando la televisione e cercando di finire il maglione che le stavo preparando per le sue dimissioni, dalla porta intorno alle 9 del mattino entra mio papà, con mia zia e suo marito. 

Ricordo bene quell’istante, e ricordo la bimba che ero,  ricordo la reazione che ho avuto. 

Li ho guardati, non hanno dovuto dirmi nulla, e ancora nelle orecchie risuona il mio NO, non ho detto altro, non avevo forza per fare o dire altro solo urlare NO. 
Non so chi ha spento la tv, chi ha ritirato i miei ferri e il maglione, non ricordo nemmeno di essermi cambiata per uscire.  Però ricordo che ho preso le sue mani gelide tra le mie, le ho scaldate; speravo di ridarle la vita, speravo di vincere la sua morte con il mio amore.

Papà era completamente sperso, ho dovuto chiamare io tutti i parenti per avvisarli della tragedia. Ho dovuto organizzare il funerale, scegliendo foto, bara, fiori, ricordini.
Il giorno del funerale, conscia della situazione economica in cui eravamo (avevano appena comprato casa), ho chiesto ai datori di lavoro di mamma se potevano assumermi.
Nel pomeriggio mi hanno portato a casa di una zia e lì tutti mi dicevano: “Pensa a papà!".

Pensa a papà? E a me chi ci pensa? E’ crollato il mio mondo, il mio universo e come posso io pensare a papà?
Mi sono chiusa in uno stanzino e lì sono rimasta per ore, da sola.

Dopo nemmeno due mesi ero nel suo ufficio, alla sua scrivania, con i suoi registri tra le mani, e ho proseguito lì, dove lei aveva interrotto il suo lavoro di contabile. 

Ho preso i miei sogni e li ho chiusi in un cassetto. Ho imparato ad usare la lavatrice, a stirare, a pulire una casa intera, a fare la spesa, ho imparato il suo lavoro. E davo a papà buona parte del mio stipendio, per pagare il mutuo della casa che avevano comprato.
E no, non sono un eroe per quello.

Ho fatto quello che dovevo fare, rinunciando per amore a realizzare il mio sogno di ragazza.
Dalla bambina che ero, viziata, coccolata e protetta dalla mamma sono diventata una “donnina”, una padrona di casa. 
Ma ho comunque scelto di vivere, e ho vissuto per anni pensando a cosa avrebbe fatto, detto o pensato lei.

Ci ho messo una vita a lasciarla andare, a farmi una ragione del suo non esserci più. 

Al fatto che i miei figli  non hanno avuto la loro nonna con cui giocare, a perdonare papà perché non è in grado di darmi e dimostrarmi il suo amore come avrebbe fatto lei.
Ma un giorno ho capito, non avevo colpe per la sua morte, non aveva colpa nessuno. Semplicemente era successo, non siamo eterni, e quello che mi ha dato in vent' anni non poteva essere sprecato, soffocato dal dolore, dalla disperazione o dalla depressione.
E giorno dopo giorno ho imparato a vivere senza di lei, amandola come prima e forse più di prima. Perdonandole anche i lati che ci facevano litigare. Era umana non perfetta. 

Il vuoto che ha lasciato è stato difficile da sopportare, non era solo la mia mamma, era la mia musa, la mia amica, la mia compagna di shopping e di avventure.

Fin dai primi giorni non ho mai rinunciato a vivere, la vita è il suo dono più grande, non mi posso abbattere e non posso cedere perché non le farei onore. Lei ha amato totalmente la sua vita e mi ha insegnato ad amarla.

E quindi ho imparato ad amare il suo lavoro, tanto che ancor oggi, se incontro i miei vecchi datori di lavoro, mi dicono che insieme a mamma siamo state le impiegate migliori.
Ho imparato a gestire la casa, a vivere senza di lei senza perdere la gioia di vivere.
E seppure faccio fatica a parlare di lei senza piangere, sono tutto fuorché una persona triste o una persona che vive nel passato. Lei rappresenta le mie radici, la mia storia e in un certo senso il mio futuro.

Oggi se riguardo indietro, vedo quella bimba seduta sul divano con i ferri in mano, e vorrei abbracciarla, stringerla forte, confortarla e dirle: tranquilla, c’è la farai e la sentirai sempre con te anche fra trent'anni.
​Non temere bimba riuscirai ad andare avanti, avrai due figli meravigliosi e anche i tuoi sogni usciranno dal cassetto dove li hai messi, e seppure ad un età avanzata riuscirai a realizzarli. E ancora, le asciugherei le lacrime e le direi di non avere paura che ci sarò sempre io con lei.

N.d.R. Con Barbara abbiamo passeggiato a lungo, parlando dell'essere genitori e figli, di gioie immense e dolori cocenti, di ricette e tradizioni da tramandare.
Insomma, abbiamo parlato di vita, quella che lei ama così tanto e che affronta con occhi che brillano e un dolce sorriso (uguale a quello della sua mamma nella bellissima foto qui sopra).
Grazie Barbara per aver condiviso la tua storia. In bocca al lupo per la tua nuova vita!
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Donne che ripartono:                                                 Carla e il pensiero della possibilità.

31/5/2017

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5 dicembre 2015: il mio primo giorno da vera libera professionista. Avevo 41 anni appena compiuti. 
Dopo sedici anni di lavoro da dipendente, sempre in grandi aziende, passando da multinazionali di consulenza informatica e infine lavorando nella sede centrale di una delle più grandi banche italiane, il ‘passo’ verso la libera professione per me è stato notevole e ancora oggi non mi sono completamente abituata!
Ah, dimenticavo: ora faccio il coach, per clienti privati e piccole aziende, e sono docente in coaching in una scuola, per nuovi coach professionisti.

Faccio un passo indietro per raccontarvi come è andata.
Il lavoro in banca da qualche anno non mi piaceva più. C’era stato un repentino ‘declino’ della qualità del lavoro che mi veniva richiesta, dell’autonomia con cui potevo lavorare, lo stipendio era congelato da sei lunghi anni e soprattutto io non percepivo assolutamente più le due cose fondamentali per me per poter andare avanti: l’utilità del mio lavoro e il senso di appartenenza ad un gruppo di lavoro competente.
Le richieste per cambiare all’interno dell’azienda venivano respinte con un ‘no’, le proposte che avanzavo per migliorare la qualità del mio lavoro altrettanto, le richieste economiche erano stroncate prima ancora di essere esplicitate.
L’unica via immediata verso la resistenza era stata per me frequentare un corso di coaching, inizialmente con l’obiettivo di prendermi cura del mio problema lavorativo, ovvero  trovare il modo per vivere in modo sereno anche questo periodo di stallo.

Cercavo un modo, il più indolore possibile, per non cambiare e accontentarmi del mio lavoro. E, come si sa, spesso le nostre intenzioni iniziali variano nel tempo e si trasformano.

Ricordo esattamente il momento in cui, di getto, mi sono iscritta al corso di formazione in coaching: il capo mi aveva appena obbligata a intraprendere per la settimana successiva  un viaggio a Napoli, col compito di tenere un’importante riunione su temi di cui non sapevo assolutamente nulla. Il motivo? Il mio diretto superiore, remunerato circa il doppio di me, aveva paura dell’aereo e il suo rifiuto ad andare a Napoli era stato accettato. 
La mia richiesta di poterne parlare, di pianificare la riunione in tempi adatti perché io  potessi formarmi, era stata respinta. Quell’anno il premio se lo intascò lui e io non fui nemmeno ringraziata.  

Spesso le decisioni importanti della mia vita sono avvenute grazie alle persone  che mi hanno ostacolata, che mi hanno dimostrato la loro incapacità, il loro disinteresse, generando in me moti di vera e propria ribellione.

Il corso di coaching fu uno di quelli  e andò a compensare tutte le sensazioni negative della mia trasferta a Napoli. Era il 2012.
Frequentando il corso mi ero resa conto che, oltre a permettermi un’importante crescita personale, stare seduta sulla sedia del coach mi piaceva. Mi piaceva ascoltare le persone e imparare tecniche e metodi per supportarle nell’affrontare i loro problemi.
A fine corso nel 2013 decisi di compiere un’altra azione ‘compensativa’: esercitare come coach alla sera e al sabato, come seconda professione oltre al mio impiego full time in banca.
Mi piaceva molto, ottenevo grandi soddisfazioni nel vedere le persone arrivare in un modo e finire il loro percorso cambiate, ero contenta dei loro ‘grazie’.
Credo che avrei proseguito così, con due lavori senza sapermi decidere, ancora per molto tempo, se la vita con tutta la sua potente sincronicità non mi avesse messa alla prova. 

Il 30 giugno 2015, alle 8.10, mentre stavo andando a lavoro in banca, un’auto mi centrò in piena velocità senza vedermi sulle strisce pedonali sotto casa.
Rispetto alla situazione, i danni per me sono stati contenuti.
Anche qui, pare brutto, mi sento di dire che l’incidente è stato il passo decisivo per me per maturare decisioni importanti.

Trascorrere un mese in casa, prevalentemente distesa a letto, senza riuscire a fare nulla se non pensare e usare il cellulare, cambia la prospettiva che hai sul mondo. E anche i due successivi mesi per ritornare a camminare da sola. 

I pensieri su quello che sarebbe potuto accadere quel giorno mi portavano angoscia e allo stesso tempo mi facevano riflettere sul fatto che la mia vita precedente aveva completamente perso di senso.
Mi ritengo una persona ironica e infatti in quei lunghi mesi la frase che si era creata nel mio discorso interiore era ‘Io non voglio morire bancaria!’. 

Il mio mesto rientro al lavoro in banca avvenne l’1 ottobre 2015 e il 4 novembre, giorno del mio onomastico, presentavo la mia lettera di dimissioni volontarie. Non sarei morta bancaria, bene.

Fino a qui, vi ho raccontato gli avvenimenti esterni, le cose che sono accadute e questo a tutti gli effetti sembra un cambiamento di lavoro e lo è anche.
In realtà per me si è trattato di un cambiamento della mia persona e dei miei modi di pensare che si è esplicitato anche in un radicale cambiamento di lavoro.
Mi piace quel giochino di parole in cui al posto di ‘cambiamenti’ si scrive ‘CambiaMenti’. Mi ci trovo. Ho cambiato pensieri e ora vi dico quali.

Ho lasciato andare tante convinzioni che mi limitavano, quali ‘non ce la farò’, ‘il lavoro da dipendente è l’unica via per avere una sicurezza’, ‘a 41 anni ormai è tardi’.

Questi pensieri possono essere di grande aiuto per non compiere un gesto folle, per cui non vi sto dicendo di abbandonarli senza prima aver fatto una bella riflessione. 
La mia ha messo in conto gli aspetti economici, le concrete possibilità che avevo già per avviare la nuova attività e una seria valutazione dei costi, soprattutto emotivi, che stavo pagando da anni. 
Tutti, A eccezione del mio compagno e della mia famiglia d’origine (grazie!), mi facevano a suo tempo un bel lavaggio del cervello sul ‘stai facendo una follia’, ‘non ce la farai’, ‘è un azzardo’, ‘devi farti piacere il tuo lavoro’, ‘pensa a chi un lavoro non ce l’ha nemmeno’, ‘te ne pentirai’, ‘guarda che poi non ti riprendono indietro’.
A volte mi sono trovata a pensare che avessero più paura loro del mio cambiamento che non io.

Fatto spazio nella mente, dopo aver tolto questi pensieri, sono andata coltivandone di nuovi, che essenzialmente fanno capo ad uno solo: ‘E' possibile’. 
Niente di stratosferico, non è un ‘se vuoi, puoi fare qualsiasi cosa!’. E’ un pensiero di possibilità  che ne porta con sé altri, legati all’impegno e al ‘volere’. 


A poco più di un anno di distanza, vi dico che il percorso è intrapreso, che non mi sono mai pentita, che non tornerei indietro nemmeno con un revolver puntato alla tempia, che ho progetti per il futuro, che ho la consapevolezza che non sarà una passeggiata. E soprattutto che ‘è possibile’.
Auguro anche a voi di intraprendere i CambiaMenti che vorrete!

N.d.R. Grazie Carla per aver raccontato la tua storia e in bocca al lupo per la tua nuova vita!
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    Chiara Caiazzo

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