5 dicembre 2015: il mio primo giorno da vera libera professionista. Avevo 41 anni appena compiuti.
Dopo sedici anni di lavoro da dipendente, sempre in grandi aziende, passando da multinazionali di consulenza informatica e infine lavorando nella sede centrale di una delle più grandi banche italiane, il ‘passo’ verso la libera professione per me è stato notevole e ancora oggi non mi sono completamente abituata!
Ah, dimenticavo: ora faccio il coach, per clienti privati e piccole aziende, e sono docente in coaching in una scuola, per nuovi coach professionisti.
Faccio un passo indietro per raccontarvi come è andata.
Il lavoro in banca da qualche anno non mi piaceva più. C’era stato un repentino ‘declino’ della qualità del lavoro che mi veniva richiesta, dell’autonomia con cui potevo lavorare, lo stipendio era congelato da sei lunghi anni e soprattutto io non percepivo assolutamente più le due cose fondamentali per me per poter andare avanti: l’utilità del mio lavoro e il senso di appartenenza ad un gruppo di lavoro competente.
Le richieste per cambiare all’interno dell’azienda venivano respinte con un ‘no’, le proposte che avanzavo per migliorare la qualità del mio lavoro altrettanto, le richieste economiche erano stroncate prima ancora di essere esplicitate.
L’unica via immediata verso la resistenza era stata per me frequentare un corso di coaching, inizialmente con l’obiettivo di prendermi cura del mio problema lavorativo, ovvero trovare il modo per vivere in modo sereno anche questo periodo di stallo.
Cercavo un modo, il più indolore possibile, per non cambiare e accontentarmi del mio lavoro. E, come si sa, spesso le nostre intenzioni iniziali variano nel tempo e si trasformano.
Ricordo esattamente il momento in cui, di getto, mi sono iscritta al corso di formazione in coaching: il capo mi aveva appena obbligata a intraprendere per la settimana successiva un viaggio a Napoli, col compito di tenere un’importante riunione su temi di cui non sapevo assolutamente nulla. Il motivo? Il mio diretto superiore, remunerato circa il doppio di me, aveva paura dell’aereo e il suo rifiuto ad andare a Napoli era stato accettato.
La mia richiesta di poterne parlare, di pianificare la riunione in tempi adatti perché io potessi formarmi, era stata respinta. Quell’anno il premio se lo intascò lui e io non fui nemmeno ringraziata.
Spesso le decisioni importanti della mia vita sono avvenute grazie alle persone che mi hanno ostacolata, che mi hanno dimostrato la loro incapacità, il loro disinteresse, generando in me moti di vera e propria ribellione.
Il corso di coaching fu uno di quelli e andò a compensare tutte le sensazioni negative della mia trasferta a Napoli. Era il 2012.
Frequentando il corso mi ero resa conto che, oltre a permettermi un’importante crescita personale, stare seduta sulla sedia del coach mi piaceva. Mi piaceva ascoltare le persone e imparare tecniche e metodi per supportarle nell’affrontare i loro problemi.
A fine corso nel 2013 decisi di compiere un’altra azione ‘compensativa’: esercitare come coach alla sera e al sabato, come seconda professione oltre al mio impiego full time in banca.
Mi piaceva molto, ottenevo grandi soddisfazioni nel vedere le persone arrivare in un modo e finire il loro percorso cambiate, ero contenta dei loro ‘grazie’.
Credo che avrei proseguito così, con due lavori senza sapermi decidere, ancora per molto tempo, se la vita con tutta la sua potente sincronicità non mi avesse messa alla prova.
Il 30 giugno 2015, alle 8.10, mentre stavo andando a lavoro in banca, un’auto mi centrò in piena velocità senza vedermi sulle strisce pedonali sotto casa.
Rispetto alla situazione, i danni per me sono stati contenuti.
Anche qui, pare brutto, mi sento di dire che l’incidente è stato il passo decisivo per me per maturare decisioni importanti.
Trascorrere un mese in casa, prevalentemente distesa a letto, senza riuscire a fare nulla se non pensare e usare il cellulare, cambia la prospettiva che hai sul mondo. E anche i due successivi mesi per ritornare a camminare da sola.
I pensieri su quello che sarebbe potuto accadere quel giorno mi portavano angoscia e allo stesso tempo mi facevano riflettere sul fatto che la mia vita precedente aveva completamente perso di senso.
Mi ritengo una persona ironica e infatti in quei lunghi mesi la frase che si era creata nel mio discorso interiore era ‘Io non voglio morire bancaria!’.
Il mio mesto rientro al lavoro in banca avvenne l’1 ottobre 2015 e il 4 novembre, giorno del mio onomastico, presentavo la mia lettera di dimissioni volontarie. Non sarei morta bancaria, bene.
Fino a qui, vi ho raccontato gli avvenimenti esterni, le cose che sono accadute e questo a tutti gli effetti sembra un cambiamento di lavoro e lo è anche.
In realtà per me si è trattato di un cambiamento della mia persona e dei miei modi di pensare che si è esplicitato anche in un radicale cambiamento di lavoro.
Mi piace quel giochino di parole in cui al posto di ‘cambiamenti’ si scrive ‘CambiaMenti’. Mi ci trovo. Ho cambiato pensieri e ora vi dico quali.
Ho lasciato andare tante convinzioni che mi limitavano, quali ‘non ce la farò’, ‘il lavoro da dipendente è l’unica via per avere una sicurezza’, ‘a 41 anni ormai è tardi’.
Questi pensieri possono essere di grande aiuto per non compiere un gesto folle, per cui non vi sto dicendo di abbandonarli senza prima aver fatto una bella riflessione.
La mia ha messo in conto gli aspetti economici, le concrete possibilità che avevo già per avviare la nuova attività e una seria valutazione dei costi, soprattutto emotivi, che stavo pagando da anni.
Tutti, A eccezione del mio compagno e della mia famiglia d’origine (grazie!), mi facevano a suo tempo un bel lavaggio del cervello sul ‘stai facendo una follia’, ‘non ce la farai’, ‘è un azzardo’, ‘devi farti piacere il tuo lavoro’, ‘pensa a chi un lavoro non ce l’ha nemmeno’, ‘te ne pentirai’, ‘guarda che poi non ti riprendono indietro’.
A volte mi sono trovata a pensare che avessero più paura loro del mio cambiamento che non io.
Fatto spazio nella mente, dopo aver tolto questi pensieri, sono andata coltivandone di nuovi, che essenzialmente fanno capo ad uno solo: ‘E' possibile’.
Niente di stratosferico, non è un ‘se vuoi, puoi fare qualsiasi cosa!’. E’ un pensiero di possibilità che ne porta con sé altri, legati all’impegno e al ‘volere’.
A poco più di un anno di distanza, vi dico che il percorso è intrapreso, che non mi sono mai pentita, che non tornerei indietro nemmeno con un revolver puntato alla tempia, che ho progetti per il futuro, che ho la consapevolezza che non sarà una passeggiata. E soprattutto che ‘è possibile’.
Auguro anche a voi di intraprendere i CambiaMenti che vorrete!
N.d.R. Grazie Carla per aver raccontato la tua storia e in bocca al lupo per la tua nuova vita!